amore a distanza coronavirus

Erano un po’ di giorni che non mi sentivo più a mio agio a stare in mezzo alla folla. Non so bene perché ma in cuor mio sapevo che iniziava a diventare pericoloso. I casi di contagio nell’isola erano pochi e circoscritti, la vita continuava frenetica a Londra: sembrava che nessuno potesse fermarla, che nessuno potesse fermarci. E poi ecco che in quel pub tra decine di spalle e di teste ho visto l’Italia. Sullo schermo della tv la BBC diffondeva una cartina della penisola con qualche macchia rossa, ma non erano più quelle a cui eravamo abituati, erano più grandi, ora c’era anche una nuova provincia tra quelle isolate: la sua.
Le relazioni a distanza sono come le altre: non sempre brutte, non sempre belle, alti e bassi diciamo. In quel pub di Londra penso che la nostra relazione abbia raggiunto un punto davvero basso. La differenza sostanziale con le altre relazioni è costituita, infatti, dagli incastri: tutto deve combaciare perfettamente, è una questione di complessi e fragili equilibri. Basta un piccolissimo contrattempo, un volo perso, un malanno ed ecco che tutta la struttura vacilla come l’impalcatura un po’ sbilenca di un palazzo in costruzione che barcolla ad ogni sferzata di vento. Diciamo che una pandemia mi sembra tutt’altro che un piccolissimo contrattempo.
Ma ritorniamo a quel pub. Improvvisamente ho iniziato a sentirmi infastidita dalle persone e dall’abitudine tutta inglese di urtarti per poi chiederti immediatamente scusa. Mi sono diretta a piedi verso una fermata metro lontana ma che mi avrebbe portata a casa senza dover fare cambi. Mentre aspettavo, un topo si aggirava sulla pensilina: non mi è piaciuto affatto, ho iniziato a pensare che tutto intorno a me fosse sporco. Mi sembrava assurdo pensare a Lui che nella zona rossa era definitivamente barricato in casa ed io che salivo contemporaneamente su un vagone metro affollato alle due del mattino. Per la prima volta in più di tre anni ho percepito sulla mia pelle ogni singolo chilometro che ci divide.

Prima fase: Lennon e Modugno

Parlo con alcune coppie di amici che in questi giorni di quarantena sono costretti a non vedersi pur vivendo nella stessa città. Soffrono tantissimo, molto più di me sembrerebbe. Penso sia normale, noi siamo abituati, in fondo cambia solo che questa volta non sappiamo quando finirà: abbiamo già passato quella fase di “oh mi senti”, “ti vedo a scatti”, e di attacchi narcolettici davanti al PC che “poi è un po’ come addormentarsi insieme no?”. Nella fase inziale affronto questa situazione con uno stoicismo incredibile, sono uno strano ibrido tra una che ha preso la laurea in psicologia con i punti dell’Esselunga ed un bigliettino dei baci Perugina: mi aggiro per le videochat dispensando frasi del tipo “La vita è ciò che accade mentre sei impegnato a fare altri progetti” oppure “La lontananza è come il vento: spegne i fuochi piccoli ed accende quelli grandi”. Irritante, lo ammetto e chiedo pubblicamente scusa ai miei amici.

Seconda fase: Pearl Harbour

Per fortuna questa fase dura poco e lascia il posto alla disperazione. Inizio a sentirmi come i miei nonni separati dalla guerra (che poi i miei nonni si sono conosciuti dopo la guerra quindi non saprei da dove arrivino tutte queste informazioni sull’estetica dell’amore a distanza in Guerra). Inizio a scrivere lettere, ascolto solo musica degli anni ’40 e cerco di contattare inutilmente l’ambasciata per farmi rimpatriare. Trovo un volo, tornerò a casa mia che comunque significa a 300 km da Lui (con tanto di Appennini e covid-19 in mezzo). Va bene così, almeno il mio cuore sparpagliato tra tante città diverse si ricomporrà un pochettino.

Terza fase: il tacchino induttivista

Inizia a questo punto la fase del “Tacchino induttivista”, che ho deciso di chiamare così perché caratterizzata da un processo induttivo che spero mi porti ad una verità universale partendo dalla mia esperienza particolare. In pratica si tratta di un “disclaimer” per dire che non penso di possedere la verità ma in quanto tacchino sono convinta che domani alle 9 del mattino mi verrà portato del cibo, e questa è la mia verità.
La conclusione a cui sono giunta in questa fase è che apparteniamo ad una generazione fortemente influenzata dal precariato non solo lavorativo ma anche affettivo. Non che non lo sapessi già ma quando l’impalcatura vacilla stare in cima fa più paura ed i sensi si affinano. Leggendo ciò che scrivono le persone in quarantena, parlando con i miei amici e con la mia famiglia ho capito che questo virus che colpisce tutti indistintamente in realtà qualche differenza la evidenzia.

“State a casa”, in un attimo mi sono resa conto di non sapere con certezza quale sia la mia casa: è quella dei miei genitori? Quella del mio compagno? Quella che mi chiudo dietro ogni mattina prima di andare in Università? Ho pensato che questa idea di flessibilità che spesso viene venduta a noi giovani come un’opportunità (l’opportunità di fare esperienze, di non fossilizzarsi subito, di esplorare, di cambiare lavoro) può costituire una pericolosa trappola. Continuiamo a costruire palafitte sgangherate nei posti in cui viviamo per qualche mese, qualche anno, conosciamo persone, creiamo reti sociali fitte e poi ecco che si cambia di nuovo alla ricerca di un nuovo posto di lavoro, e la palafitta rimane lì, piena di ricordi ma allo stesso tempo sai perfettamente che una palafitta sgangherata non è il posto in cui vorresti veramente stare durante una tempesta.

Penso alle persone separate da questo virus, separate da un mondo del lavoro che non garantisce stabilità. Penso che una società in cui molti giovani (e non solo) sono spaventati dal virus, non in quanto tale ma in quanto causa della perdita di quel posto di lavoro senza contratto e senza nessuna tutela che, però, li fa respirare un po’ a fine mese, è una società che indubbiamente ha sbagliato qualcosa. Penso che una generazione che è costretta a rincorrersi in giro per il mondo cercando di mantenersi in equilibrio su questi fili tesi tra un’opportunità e affetti vada in qualche modo tutelata. Perché se scappare talvolta ci sembra l’unica via percorribile, quando impazza la tempesta è nel nostro Paese che sentiamo di dover tornare, il nostro Paese ferito e dal destino incerto.

CONDIVIDI!