di Chiara Grottoli
Il cielo opaco e inerte, come gennaio, bianco sopra il tetto, cominciò ad animarsi di fumo: nella casa c’era qualcuno. Davanti al camino stava chino un uomo tornato dal lavoro: la legna umida complica sempre quel rituale. Spettatrice assorta, pochi passi dietro lui, una donna con in mano un libro.
-Si è acceso- pronunciò voltandosi da lei, con la dolcezza nel viso e nella voce. Gli rispose un sorriso asciutto e assente.
Nemmeno lui ancora aveva chiara la ragione del suo sì.
Fossero stati la compassione o il fascino a convincerlo? Si fosse voluto così impedire una relazione seria con un’altra? Forse quel sì gli permetteva di sentirsi forte, al di sopra di tutto, o al contrario di ammettere la propria debolezza. Magari era solo la prima parola comparsa nella sua testa. Ma quella donna meritava un sì da qualcuno e soprattutto a lei non aveva mai saputo dire no. Ognuna di queste o nessuna. Però aveva risposto sì e l’aveva accolta in casa. Così da quasi un mese qualcuno era tornato a violare la sua solitaria e abituale cattività domestica. Non era difficile la coabitazione: non una donna, ma uno spettro si aggirava per casa. Aveva dato asilo a un animo profugo, senza sapere di chi o che cosa. Quando gli era comparsa sulla porta, Ivan era già al corrente di tutto.
-Aiutami- aveva implorato -non so chi altro…
E lui aveva risposto sì.
-Dimmi che non è vero! – esclamò l’amico con una mano sulla fronte.
-Potevo rifiutarla?
-È una cancrena. Imputridirà anche te! –
Ivan accennò una risata.
-Lucio, sei cattivo e anche un po’ teatrale! Mi piacerebbe sapere come ti vengono in mente…- e cambiando tono aggiunse -No, chi soffre è lei sola, il male è tutto chiuso dentro di lei.
Rimaneva seduto, giocando con una sigaretta spenta fra le mani.
-Lo fai perché pensi di ottenere qualcosa?
Incalzò l’altro, infastidito dall’atteggiamento sprezzante.
-Aveva bisogno di qualcuno…
-La famiglia?
-Credi che guarirà dove s’è ammalata?
-Credo che guarisca curandosi, non in casa tua. Sei un medico?
-No, infatti. Non sarò io a guarirla. Ma io la conosco: le sue ombre, il suo talento, i suoi chiaro-scuri…
-Ti sbagli: tu la conoscevi.
-No, è malata ed io ho bisogno… si deve ritrovare, merita rispetto e attenzioni.
Lucio sospirò e scosse di nuovo il capo, mentre andava su e giù per la stanza.
-Mi dispiace e non capisco. Quante donne, dimmi, quante donne ti hanno cercato come lei e tu…
-Non capisci proprio? – lo interruppe, senza permettergli di finire -lei non cerca un uomo che la consoli e che occupi un posto vuoto. No! Lei ha cercato chi la capiva, uno che parlava la sua stessa lingua!
-Così mi spaventi. Se penso alle donne che hai rifiutato… adesso, che responsabilità… una donna- e lo guardò dritto -mille problemi… non vorrei cercassi di espiare con lei qualche torto passato, che ti pesa sulla coscienza.
Ivan abbassò la testa, poi riprese.
-Senti, se fossi venuto da te, disperato, in cerca d’aiuto, cosa avresti fatto?
-È diverso.
-No, è uguale. Non potevo fare in un altro modo. Dovevo provare. È venuta da me! – esclamò-Non potevo cacciarla.
-Stai attento. Non vorrei ti ammalassi tu…-
-Mica sono un adolescente! – cercò di rinfrancarlo con la sua risata ammaliatrice.
-Questo mi preoccupa- borbottò Lucio fra i denti, senza lasciarsi convincere da quel noto sorriso. Alla fine però si arrese, promettendosi di vigilare su quella situazione tanto strana.
Su questo rifletteva Ivan un attimo prima che il fuoco si convincesse ad ardere e si voltasse da lei. Poi, c’era stato il suo sorriso, quel cenno di sorriso e tutta la discussione si era dissolta fra i suoi pensieri. Adesso si alzava, rassicurato dal fuoco che ardeva, e si sedeva accanto.
-Cosa hai fatto oggi?
Involontariamente, le accarezzò la fronte per spostarle un ciuffo di capelli. Era diventata così silenziosa, chissà se per vergogna o mancanza di interesse.
-Niente più farmaci- esordì timida- pensavo lo dovessi sapere. Concesso dal medico, senza entusiasmo… Gliel’ho chiesto io. Sarà difficile, ma almeno… Prima era tutto spento, tutto.
Appoggiò il libro.
-Scusami se ho pensato a te, ma sei l’unico con cui non ho mai saputo, né dovuto fingere. Mi conosci. E adesso avevo bisogno di qualcuno con cui poter essere vera.
Capì che era un momento particolare: intravide in lei, dopo quasi un mese dalla sua venuta, la volontà. Sentì che senza far niente, in realtà faceva qualcosa. Bisognava aver pazienza, starle vicino e darle affetto, tre azioni che a questo punto della vita era in grado di fare senza confondersi. La ricompensa fu un nuovo sorriso, stavolta più autentico e convincente.
-Domani riprendo a lavorare.
Allora lui s’accorse che la giornata s’era riempita di significato.
POMERIGGIO (2)
Si era fatto un poco scuro, ma non ancora notte. Lo scuro che d’inverno arriva nel pieno del giorno. Non l’aveva nemmeno vista appena entrato, solo dopo si era accorto di lei. Fuori cadeva una pioggia leggera, fitta, per niente violenta, ma scomoda. Teneva una mano appoggiata sulla maniglia, l’altra sul legno della finestra. Ivan la scrutava di profilo, senza capire se l’imposta le servisse da sostegno o se ostacolasse un’ipotetica idea di fuga. Fu lei a parlare.
-Come faceva quella canzone?
-Che cosa?
-Aspettare, aspettare che tutto passi. Come quando piove. Che cosa possiamo fare? Aspettare che smetta.
Ivan rimaneva in silenzio.
-Se affrontassimo così la vita, non saremmo più sereni?
Continuava a fissar lo sguardo su un punto indefinito fuori, come se ripetesse a voce alta qualcosa che il suo pensiero coglieva.
-Se fossimo coscienti della nostra nullità, della nostra impotenza, avremmo pace e aspetteremmo che le situazioni evolvessero come vogliono, senza pretendere quell’onnipotente mania che ci spinge a intervenire su tutto.
L’uomo non era d’accordo, ma forse nemmeno lei. Poteva anche essere solo una via per uscirne.
-Vuoi venire a teatro stasera? – chiese d’impulso, senza pensarci.
Si voltò di scatto, come svegliata da quell’invito.
-Davvero mi porteresti? – rispose con una domanda alla domanda- Di solito non ami che qualcuno ti accompagni…
-Ma so che tu verresti per il teatro, mica per me.
Vide un lampo attraversarle gli occhi e si compiacque.
-Vado a prepararmi! – sorrise e fuggì di sopra.
NOTTE (1)
Si era appena addormentato, ma non riusciva a mantenere un sonno normale: qualche cosa infrangeva la sua notte da poco iniziata, arrivando fino ai suoi sogni. Un rumore reale o immaginato: miagolare di gatti, vagiti di neonati, singhiozzi di amanti. Sì svegliò del tutto e s’accorse che l’origine non era la sua mente, ma il suo corridoio. Con difficoltà si alzò e s’infilò la vestaglia. In cima alle scale, piegata in due con la faccia sulle ginocchia, stava seduta lei.
-Cosa c’è?
Piangeva incontenibile.
-Stai male?
Quando si avvicinò, lei alzò il viso e confusamente farfugliò-Ivan, non posso, io non ci riesco.
Allora lui cercò il contatto perché da sempre un’affinità materiale aveva accompagnato quella mentale: il tatto fedele quanto la voce.
-Calmati- bisbigliò, mentre si sedeva di fianco.
-Non ci…- tentò, senza riuscire. E piangeva. Affannosa respirava e col viso nascosto fra le mani continuava il lamento.
Il momento critico arrivava all’improvviso: una fitta bloccava il respiro e una scarica di battiti fuori tempo come ballerini incapaci l’annunciava.
-Il dolore… Come se il dolore di tutto… se tutto il dolore del mondo si rifugiasse qui dentro.
Indicò con la mani la gola e il petto.
Provò compassione.
Sembrava volesse raccontare ancora, ma continuò solo a piangere, appoggiata alla sua spalla. Poi, s’esaurì anche il pianto.
-Prova a metterti a letto, sei stanca, dormi subito.
-No, ti prego… ti prego non mi lasciare sola.
Squadrò la sua nuca appoggiata, quindi decise.
-Vieni, fa freddo qui per le scale. Dai, andiamo a dormire.
Allora ubbidì. Lui l’aiutò ad alzarsi ed insieme s’avviarono a letto.
Non era proprio capace di dirle no. Cadeva un altro tabù, aprendo le porte di quel tempio inviolabile che era la sua camera da letto.
Si calmò, ma solo quando furono stretti, quando, steso alle sue spalle, la cinse stretta. Quell’abbraccio non aveva nulla di sensuale, al contrario, in quella notte erano due entità incorporee, come una madre col feto in grembo. E come un bimbo si rassicura e s’addormenta, udendo la voce della mamma così anche lei s’era assopita quando lui aveva iniziato a parlare.
-Una volta mi hai raccontato un sogno: eravamo insieme vicino ad una cascata d’acqua e osservavamo la roccia dietro, rosa. Torniamoci insieme stanotte.
E poi s’era addormentata.
POMERIGGIO (3)
Il divano era vuoto. Per la prima volta tornava a casa e non c’era. Cominciò a cercarla, chiamarla, silenzio. La mente allora aveva cominciato una gara di congetture senza conclusione. Salì di sopra.
“Forse è in camera” si disse.
Eppure aveva sempre una scusa per aspettarlo in salotto.
Se per un dono speciale avesse potuto prevedere il futuro, non avrebbe perseverato nel gesto che stava compiendo. Ma per fortuna del caos che ci governa, l’uomo non sa ancora presagire quanto importante diventi un insignificante passo; né per fortuna dell’uomo, egli s’accorge di questo segreto, che renderebbe ogni piccola scelta un dilemma esistenziale.
La porta del bagno schiusa creava una fessura sottile: vi infilò lo sguardo. Eccola lì che stava bene.
Nuda e seduta sul bordo della vasca, sopra l’accappatoio aperto come la corolla di un fiore. Catturò la schiena bianca e un po’ arcuata nell’operazione di asciugarsi; il collo indifeso dai capelli raccolti; la cicatrice sopra il fianco, fulcro di mille attenzioni. Ammirava i lunghi arti e la quiete nei gesti ripetuti e antichi. Il capo stava appena inclinato da una parte, permettendogli d’intravedere meno di un profilo. E lui su ogni anello della dorsale avrebbe posato leggero la bocca e nei suoi fianchi pieni le mani e percorso fino a perdersi quell’esplosione di sensualità svestita e inconsapevole. I pensieri accantonati pronunciando il suo sì e ogni sano proposito cadevano sfioriti come quell’accappatoio azzurro sotto di lei. Ma si caricò i suoi anni, la maturità e chiuse la porta a soffocare ogni sciagurato impulso.
Marta, voltandosi, si ricordò dei tappi delle orecchie per l’acqua e, mentre li toglieva, intravide la porta chiudersi. Intuì che era tornato e che la sua doccia era stata lunga. Sorrideva di quelle particolari attenzioni che le riservava e ragionava che nella vita mai nessun uomo era stato tanto premuroso con lei e non le interessava quello che andavano raccontando le altre donne su di lui.
NOTTE (2)
Spalancò gli occhi a guardar l’ora: la sveglia segnava le due. Un minuto dopo udì la porta che si apriva e si richiudeva. Sentì i suoi passi che volevano essere silenziosi, ma che per lei erano macigni. Era stato da una donna, con una donna: era chiaro e anche normale, ma i battiti del suo cuore si facevano fitti e sincopati.
Doveva farle piacere che non mutasse le sue consuetudini, ma non riusciva a trarne soddisfazione: la gelosia aveva ricominciato a tentarla maligna.
“Forse è bene che me ne vada” finì col pensare “sto meglio adesso”. Tuttavia non prendeva seriamente quell’ipotesi. Immaginava invece l’indomani, quando l’avrebbe incontrato e avrebbe riconosciuto l’appagamento nei suoi occhi e sentito quasi l’odore dell’altra come una belva in calore.
Ma si ripeteva “Vivo con lui, ma non sono la sua donna”.
Non voleva neanche esserlo. Non voleva più essere la donna di nessuno, solo se stessa. Eppure, i momenti condivisi in quella bislacca convivenza facevano capolino fra i suoi pensieri: mentre accendeva il camino, tornato a casa, e lei leggeva, sbirciandolo ogni tanto fra le righe del suo libro, una calma serena l’abbracciava come il tepore che piano piano spandeva il fuoco appena acceso.
Ma in questo preciso istante, a una rampa di scale di distanza, l’unico sentimento era un’antipatia profonda nei confronti di lui e dell’altra.
Di sotto Ivan beveva un bicchiere d’acqua e girava un po’ per casa. Poi, seduto sul divano, fumava. Si sentiva quasi un traditore, nonostante l’assurdità di un pensiero simile.
Alle donne non aveva mai rinunciato, anche se non le aveva mai rincorse o cercate. L’infastidiva quell’innaturale senso di colpa, non motivato neanche dal fatto che avesse Marta nella mente quando aveva preso il piacere dell’altra.
“La sua schiena candida” gli passò fra i pensieri.
Da quando l’aveva vista, furtivo, quella visione lo tormentava come un castigo per quella profanazione.
Salì le scale e, prima di dormire, si soffermò sulla porta aperta della camera di lei. Non poteva immaginare che fosse sveglia. Stava fermo e fissava la duna che la trapunta disegnava sopra il corpo girato di fianco, col viso al muro. “Cara amica mia” pensava “se solo ti lasciassi amare… Non me lo hai mai permesso nemmeno allora… Saprei leccare le ferite del tuo animo complicato ed emotivo, piccola Marta mia. Lucio si sbaglia, tu non sei una cancrena, tu sei piuttosto un’emorragia. Hai un animo profondo e una sensibilità intensa e bisogni di amore continuo come quella di sangue.”
Ragionava su tutto, inebriato dal piacere e dal fumo di qualche istante prima. Poi si mosse e andò a letto, sperando il giorno venturo di evitarla, almeno fino a sera.
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Chiara Grottoli nasce l’11 giugno 1978. Vive fino a quattordici anni a Piagge (PU), un paese che è una via, che guarda il mare da un lato e l’Appennino dall’altro. È farmacista. Ama la natura, la musica, il cinema, e soprattutto i libri, Radiotre e Passaggi.