La nuova rassegna Buongiorno Passaggi. Libri a colazione, che si è svolta presso il Bon Bon Art Café, si è conclusa sabato 29 agosto con l’incontro di presentazione del libro di Stefano Pivato, Storia sociale della bicicletta (Marsilio). A dialogare con l’autore, storico ed ex Rettore dell’Università di Urbino, Chiara Grottoli, farmacista appassionata di libri e membro dello Staff di Passaggi Festival.
Ricostruire la storia attraverso la bicicletta
L’incontro si è aperto con una citazione del famoso giornalista sportivo Gianni Brera “Traverso le viti di una bicicletta si può scrivere la storia d’Italia”. Questa frase incarna l’idea del libro, cioè quella di fare un affresco della storia d’Italia a livello sociale, politico, culturale ed economico attraverso i 150 anni di storia della bicicletta. Si può pensare che il libro tratti della storia della tecnica, dell’evoluzione di quella che in fondo è una macchina. In realtà Storia sociale della bicicletta (Marsilio) è il tentativo di leggere la storia d’Italia attraverso questo strumento così particolare e di capire il rapporto del paese con la modernità. La nascita della bicicletta risale al Positivismo e le reazioni furono molteplici.
La bicicletta e i suoi cambiamenti
La bicicletta venne considerata al pari della macchina sia per la sensazione di velocità che per l’idea di libertà. Permetteva infatti di staccare i piedi dal terreno e di avere una velocità di quasi 20 km/h.
In realtà nella sua storia non è cambiata molto. Ci fu il modello senza catena, senza pedali, il biciclo con la ruota grande davanti, il modello “safety” con due ruote e una catena di trasmissione, inventato nel 1885 da un’azienda che però consigliava di frenare anche con i piedi e non affidarsi troppo ai freni della bicicletta. Nelle linee essenziali però non vi furono grosse modifiche. Eppure la sua invenzione sconvolse la società.
Donne e biciclette
Per il mondo femminile la bicicletta fu uno scandalo per due motivi.
Il primo perché permetteva alla donna di allontanarsi dal focolare domestico, considerato il luogo di cui si doveva occupare per la mentalità dell’epoca.
In secondo luogo perché vi erano storie assurde dietro: che la bicicletta fosse una forma di autoerotismo oppure che fosse poco congeniale alla gonna, tipico abito della donna. Le prime donne che indossarono la gonna pantalone a Milano vennero assediate nel 1911 in un negozio in Galleria. Il fascismo negli anni Trenta vietò alle donne di indossare il pantalone.
Anche se per le donne non vi era un divieto formale, ma più che altro di sostanza, durò per lungo tempo. Era legato anche al fatto che per guidare la bici era necessario piegarsi e quindi non indossare il corsetto, che dava una posizione rigida. Ma liberarsi di questo capo d’abbigliamento non era ben visto.
La bicicletta fu quindi una vera e propria rivoluzione antropologica, con effetti anche sulla posizione del corpo della donna. Più avanti venne prodotta una bicicletta senza canna che meglio si adattava alle esigenze femminili. In alcune nazioni la bici fu strumento di liberazione della donna, ma le femministe italiane non volevano offendere il comune senso religioso e del pudore e quindi non diedero questo significato alla bici.
Preti e biciclette
Per i preti vi era invece un vero e proprio divieto formale di utilizzo della bicicletta, perché scomponeva l’abito, la veste che era quanto di più sacro avessero addosso. Eppure nell’archivio del Vaticano vi sono innumerevoli sospensioni a divinis e denunce verso preti che la utilizzavano. Questa infatti risultava comoda, visto che i preti avevano un territorio vastissimo da coprire e quindi potevano raggiungere prima la casa di un fedele a cui dovevano dare l’estrema unzione. Grazie al Concilio Vaticano II, negli anno Sessanta, Giovanni XXIII tolse l’obbligo della veste lunga e quindi i preti poterono andare in bici.
La politica e la bicicletta
La politica inizialmente vide nella bicicletta uno strumento di propaganda, ma poi la considerò una perdita di tempo che allontanava dall’azione politica.
Pivato sfata il luogo comune secondo cui il fascismo fosse antisportivo, perché modernizzò lo sport femminile, anche se con grande moderazione. Le donne in quanto madri dovevano fare ginnastica e prendersi cura del corpo. Il fascismo ebbe dei dissidi con la Chiesa proprio per l’incoraggiamento nei confronti dello sport femminile, che vedeva ad esempio le donne correre in pantaloncini. Si racconta però che Benito Mussolini osteggiasse il Giro d’Italia e durante le prime edizioni buttasse dei chiodi in strada per bloccarlo, perché la bici era simbolo del capitalismo e andava boicottata.
Oltre alla Chiesa anche il socialismo era contrario all’utilizzo della bicicletta, un socialismo agrario e profondamente conservatore che vedeva nella bicicletta l’allontanarsi dal partito. Vennero indette gare di lettura per allontanare i giovani dalle gare di ciclismo.
Gli unici ad intuire le potenzialità propagandistiche della bicicletta furono i futuristi, che videro velocità e modernità in questo mezzo. Lo stesso Marinetti ed altri futuristi formò il corpo volontari ciclisti e motociclisti, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Alla fine si trattò di una guerra più che altro d’opposizione e non di movimento, quindi venne ben presto sciolto. Eppure i futuristi abbracciarono l’idea della bicicletta, a differenza dei tradizionalisti.
Le gare ciclistiche: Giro d’Italia e Tour de France
L’incontro con Pivato si è svolto proprio nel giorno d’inizio dell’edizione 2020 del Tour de France. Stefano Pivato ha voluto ricordare Sergio Zavoli, morto ad inizio agosto, che ha condotto la trasmissione Processo alla tappa, che commentava il Giro d’Italia. Inoltre era stato ospite a Passaggi Festival, nell’edizione 2013, dove aveva ricevuto il premio Passaggi.
Per quanto riguarda le differenze tra Giro d’Italie e Tour de France Alfonso Gatto sosteneva che: “Tra Tour de France e Giro d’Italia c’è la stessa differenza tra impressionisti e macchiaioli”.
L’Italia è da sempre un paese ricco di centri abitati, quindi ogni volta che passa il Giro si costruisce un’atmosfera di festa popolare. In Francia invece un quinto della popolazione vive nella capitale, quindi il Tour era considerato una processione circolare che parte dalla capitale e termina nella capitale.
La bicicletta diventa grande in Francia pur essendo nata in Inghilterra. Infatti nell’Esposizione Universale fa da protagonista insieme alla Tour Eiffel. Viene ribattezza la petit reine, la piccola regina. Il Tour è quindi sempre considerato più prestigioso del Giro. Ci fu un solo periodo in cui il Giro fu più prestigioso del Tour: i tempi di Coppi e Bartali, che costituirono una sorta di cura alle ferite lasciate dalla Seconda Guerra Mondiale. Finita questa parentesi, il Tour ha continuato a essere la corsa più rappresentativa delle due ruote. I motivi sono molteplici, forse il fatto che restituisce il senso della grandezza francese. Ma anche perché vi è un senso di riverenza nei confronti del vincitore e di rispetto nei confronti di chi perde. A volte in Francia i perdenti sono amati più dei vincitori. È l’esempio di Poulidor che arrivò cinque volte secondo, eppure viene osannato più di alcuni vincitori.
I giornali sportivi
Queste competizioni ciclistiche nascono per vendere più biciclette, ma anche più giornali. La Gazzetta dello Sport diventa quotidiano grazie al Giro d’Italia. Come storico, Pivato spesso viene criticato perché si occupa di storia dello sport. Ma questa non è affatto secondaria, basta pensare che l’Italia ancora oggi è l’unico paese in cui si pubblicano tre quotidiani sportivi, fino poco tempo fa quattro, a differenza di Paesi in cui non se ne pubblica nessuno. Lo sport in Italia è un fenomeno sociale rilevantissimo. Siamo i più grandi consumatori di sport al mondo, per cui si può parlare di storia attraverso lo sport.
Dal ciclismo al calcio
In generale in Italia la bicicletta venne accettata solo al Nord. Il più alto numero di biciclette si riscontrava in Emilia-Romagna sia perché pianeggiante, sia perché la figura principale era il bracciante che aveva una mente molto aperta e moderna. In alcune regioni, soprattutto in Meridione, si fece molta fatica ad accettarla e anche questo dimostra come non sia solo un insieme di due ruote ma molto di più.
Fino al boom economico il ciclismo risultò essere lo sport più popolare. Venne poi soppiantato dal calcio e a questo contribuì l’episodio della tragedia di Superga e la morte del Gran Torino, che crearono la prima grande emozione collettiva dell’Italia nel dopoguerra.
Inoltre tra il 1958 e il 1963 si collocò il boom economico e molte famiglie scoprirono l’andare in vacanza con la Fiat Seicento, caricando la Graziella sul portapacchi. Qui tramontò l’era della bicicletta, anche se si ebbe una piccola ripresa durante la crisi petrolifera.
Il ciclismo è sempre stato lo sport dell’uomo comune, i cui grandi campioni erano umili e permettevano un’identificazione immediata tra uomo della strada e vincitore. Tra l’altro quasi tutti i ciclisti provenivano dalle piccole città.
Scrittori e biciclette
Nell’ultimo capitolo del libro “Biciclette di carta” si parla della bicicletta nell’arte.
Alcune grandi opere sulla bicicletta sono ad esempio il libro di Alfredo Oriani che si intitola propria La bicicletta. Sono state scritte anche numerose antologie, come quelle di Guareschi o Bassani. Cesare Zavattini fu sceneggiatore del capolavoro Ladri di biciclette. Ma secondo Stefano Pivato i versi più belli sono quelli di Stecchetti, che riporta anche nel suo libro sia in italiano che in dialetto romagnolo.
La bicicletta è oggi il primo strumento del tempo libero dell’italiano perché, nonostante nacque come strumento dell’aristocrazia, è accessibile a tutti e genera sensazioni di libertà e benessere che chiunque può provare.