Gemma Calabresi, Passaggi Festival 2022

Gemma Calabresi Milite è la “vedova Calabresi”. Vedova di Luigi Calabresi, poliziotto ingiustamente accusato della morte di Giuseppe Pinelli, fu di conseguenza ucciso da individui che volevano vendicare la morte di quest’ultimo. I mandanti e gli esecutori dell’omicidio Calabresi vennero individuati dopo uno dei processi più lunghi del dopoguerra italiano, durato 11 anni. A Passaggi Festival, in occasione della rassegna di saggistica “Libri in Piazza”, Gemma Calabresi racconta la sua esperienza di vita dopo quel fatidico 17 maggio 1972, data della morte di Luigi, nel suo libro “La crepa e la luce” (Mondadori). L’Autrice conversa con Armando Trasarti (Vescovo di Fano) e Luigi Contu (Direttore Agenzia Ansa).

Vendetta-Perdono, la difficoltà della scelta

Gemma Calabresi viene accolta dagli applausi di una piazza gremita. Ogni parola di Gemma viene ascoltata con estremo interesse dal pubblico che pende dalle labbra dell’autrice. Per aprire l’incontro Contu chiede a Gemma perché abbia sentito la necessità di parlare di ciò che le è accaduto dopo 50 anni dalla morte del marito. Gemma riflette un attimo, poi alza lo sguardo:

“Dopo tanto silenzio, forse per mancanza di coraggio, ho sentito la necessità di voler condividere il mio percorso. Per molto tempo ho pensato al perdono e quello lo si dà solo col cuore, non con l’intelligenza, non con il raziocinio. Ho pensato che così non avrei dimenticato ciò che è stato. Nel mio libro parto col desiderio di vendetta, pensavo che mi avrebbe fatto sentire meglio. Mi crogiolavo nell’idea di trovare i responsabili (“Assassini” li ha chiamati per lungo tempo) e sparare loro. Col tempo ho imparato che si può continuare ad amare la vita anche dopo un dolore lacerante. Si può cambiare opinione verso le persone, si può scegliere di perdonare”.

Ricordare, non dimenticare, prima Ciampi poi Napolitano

Contu vuole mettere le cose in chiaro, sempre col permesso di Gemma: “È importante fare luce sulla storia, anche nelle sue parti più buie”. Questa storia è crudele e fredda: lo Stato, fino al 2004, non ha fatto niente per riconoscere l’omicidio di un servitore dello Stato. I principali intellettuali dell’epoca avevano condannato Calabresi, molti si sono poi pentiti ma la coscienza dell’epoca è stata quella, è inutile negarlo. Solo con Ciampi, nel 2004 dicevamo, viene concessa la Medaglia d’oro al Merito Civile in memoria di Luigi Calabresi. Mentre Ciampi appuntava la medaglia sul vestito di Gemma, lei ricorda con estrema chiarezza che le sussurrò all’orecchio: “Signora, abbiamo ritrovato la memoria”. Gemma sapeva quanto fosse onesto “Gigi” ma, finalmente, adesso, anche il Presidente della Repubblica diceva dinnanzi a tutti gli italiani ciò che lei aveva sempre saputo: Luigi Calabresi era innocente. Poi Napolitano, il 9 maggio 2009, ha istituito la Giornata Nazionale in memoria delle Vittime del terrorismo, “Questo 30 anni dopo la morte di Luigi”, precisa Contu. Gemma ricorda:

“Il 9 maggio 2009, ho incontrato la vedova Licia Pinelli. La stampa faceva di tutto per mettere contro le “due vedove”, io e Licia, unite su lati opposti di una tragedia simile. All’inizio non volevo andare all’incontro con Licia al Quirinale. Poi pensai che anche in quel caso un padre non era tornato a casa. Chi più di noi due poteva capire l’altra? Quando sono entrata al Quirinale, quel giorno, sono andata direttamente da lei, ci siamo abbracciate, io le ho detto “Finalmente” e lei “Dovevamo farlo prima”. Napolitano ha fatto sedere su un divano da un lato me, la Pinelli dall’altro e lui al centro, ci ha poi preso ed unito le mani con le sue. Abbiamo parlato per un po’ con le mani giunte così. È stato un gesto profondo e molto significativo che tutt’oggi mi porto dentro”.

I figli ed il calvario del processo

Gemma ricorda come abbia fatto di tutto pur di non crescere i suoi figli nell’odio e nel rancore “Perché sarebbero stati vittime di una tragedia in più”. Ha sempre cercato di fare in modo che i suoi figli amassero gli altri, che pensassero che nel mondo non c’è solo del male, anzi, che c’è più bene rispetto al male.

“Ho fatto vivere Gigi ogni giorno in casa, ci parlavo. Dicevo: “Questa è una cosa che avrebbe detto lui”. L’essercelo portato nella vita è stato di grande aiuto per noi, dimenticare non è la soluzione. Lui, in realtà, è sempre stato presente”. Il processo in seguito alla sua morte poi, durato 11 anni, è stato il mio calvario. Entravo in tribunale e mi dimenticavo se fosse estate o inverno, se avessi mangiato oppure no. Dissi ai miei figli, prima che cominciassero le udienze: “Andiamo là per ascoltare, per accettare le sentenze, non si fanno polemiche perché è un’aula di tribunale, non una strada. Dobbiamo salutare anche gli imputati, il buongiorno non si nega a nessuno”. È stato un periodo difficile per tutti. Ho visto gli imputati in maniera diversa. Uno di loro l’ho visto parlare col figlio e ho capito che stesse gli dicendo qualcosa del tipo “Grazie d’essere venuto ma ora vai, io me la cavo”. È la stessa cosa che avrei fatto io. Mi sono chiesto che diritto avessi di relegare queste persone per tutta la vita all’atto peggiore che avessero commesso. Ho fatto l’opposto di ciò che faceva il terrorismo degli anni di piombo: disumanizzava le persone, le riduceva a cattive azioni. Io ho voluto fare l’opposto”.

Ogni lacrima non pianta ci allontana dalla guarigione

L’intervento del Vescovo Trasarti è molto profondo. Come si trova, infatti, la forza di andare avanti che ha avuto Gemma? Come si può acquisire quella forza d’animo, quel coraggio di guardare al futuro? “Ora Gemma sembra una persona in pace, sembra aver fatto i conti col passato”, dice il Vescovo e continua:
Ognuno ha un suo percorso. Non bisogna seppellire il dolore, bisogna viverlo, analizzarlo. Il superamento della sofferenza è un percorso di natura. Si deve chiamare per nome il defunto, piangerlo, perché ogni lacrima non pianta ci allontana dalla guarigione. Il perdono non ti toglie la pena, è un percorso lungo e personale, nessuno costringe a perdonare. Quando lo si fa è perché lo si sente davvero, è difficile trovare qualcosa di più arduo del percorso che porta al perdono”.

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