Stiamo vivendo un periodo complesso, fatto di angoscia, preoccupazione, timore ma anche di lentezza, analisi e riscoperta. Alle volte fermarsi serve per fare il punto della situazione; capire perché si è arrivati fino a lì, accorgersi di ciò che abbiamo creato intorno a noi e cercare di cambiare cosa non sta funzionando. Nello stesso tempo siamo chiamati a riflettere su tutto ciò che ha comportato “l’arrivo” di questo virus e come fare per arginare la grave situazione che stiamo provando sulla nostra pelle e come gestirla in un futuro più o meno vicino.
La cosa più difficile è proprio districarsi in questa marea di informazioni, discordanti se non opposte, che arrivano da più parti, dall’alto, dalle istituzioni, passando e finendo nelle chat “dannose” di WhatsApp che stanno sostituendo i social, in quanto a contenuto di fake-news.
C’è chi ci dice che il coronavirus Sars-CoV-2 viene dalla Cina ed è colpa dei cinesi se è arrivato in Italia. C’è chi ci dice che arriva da un pipistrello, seguendo la linea della “profezia” del divulgatore scientifico Quammen, dove in Spillover aveva previsto l’arrivo di un virus. C’è chi invece pensa sia un prodotto di laboratorio, che ha depotenziato un virus naturale, cercando di creare una guerra virale.
In tanti pensano di essere in guerra; rinchiusi nelle proprie case, senza la libertà di uscire, neanche per prendere un po’ d’aria e di sole. Nelle strade solo esercito, forze dell’ordine e protezione civile, come in uno stato d’assedio. Ma possiamo veramente pensare di esserci? Una guerra del XXI secolo, in casa, con armi chiamate virus?
In un articolo Daniele Cassandro, giornalista italiano di Internazionale, scrive che siamo soliti parlare dell’emergenza Covid-19 in termini bellici, ma che è arrivato il momento di smetterla di usare questo linguaggio ottocentesco e di creare nuove metafore. Siamo abituati a chiamare le malattie in base al paese straniero o nemico da cui provengono e finiamo per considerare un’emergenza sanitaria come una lotta con l’avversario, da vincere con la forza. Quel linguaggio bellico, che anche Tiziano Terzani criticava aspramente in Un altro giro di giostra, utilizzato per parlare della malattia, e nel suo caso del cancro, o da Susan Sontag in Malattia come metafora, in cui la terapia diventa un’arma, che pare solo pochi (Stati) possono avere, sempre meno – se si parla di vaccini – nel nostro mondo.
E quindi in questo “arresto” forzato, stabilito a fin di bene per arginare i rischi del contagio, c’è chi trova una cura dalla fretta, dal lavoro, dai ritmi esagerati e ritrova il piacere di fare le piccole cose e stare con i propri figli. Chi, invece, in questo tempo senza tempo non riesce a fare niente e si incupisce.
C’è chi ha bisogno di vedere la luce del sole per ritrovarsi e avere il buon umore; c’è chi riesce a trovarla dentro si sé la luce, ascoltandosi. C’è chi in questi giorni ha perso parenti, soprattutto nonni o genitori, senza poterli accompagnare nell’ultimo viaggio e celebrarne il funerale. C’è chi non capisce la gravità della situazione; c’è chi è convinto che non sia così grave la situazione. C’è un sistema sanitario, pubblico, che rischia il collasso; c’è una regione, la Lombardia, stremata dal contagio e dalle vittime di Covid-19; c’è chi invece fa fatica a percepire la situazione di allarme perché magari vive al sud, ad oggi meno colpito.
C’è chi ha diritto alle terapie intensive per guarire da questa influenza che poi così tanto influenza non è; e c’è chi rischia di non averne per la mancanza di spazio e macchinari per tutti. E chi decide chi ha ragione di vivere e chi no? Sembra che a decidere sia l’età. Ma come facciamo a dire che una vita vale più di un’altra?
C’è chi ci ricorda i numeri dei morti di ogni anno per una normale influenza e chi invece riporta il bollettino dei contagiati e dei morti per e con Covid19.
C’è chi dichiara lutto nazionale e piange di fronte all’immagine dei mezzi militari che portano via le salme delle vittime del virus; c’è chi balla e canta dal balcone per superare e continuare a sorridere alla vita.
C’è chi ringrazia medici e infermieri per il durissimo lavoro che stanno facendo, con orari disumani.
C’è chi fa caso al canto degli uccellini e all’arrivo della primavera, con i suoi colori e i suoi profumi; c’è chi vede tutto nero, si angoscia, ha paura.
C’è chi si è vergognato di essere italiano e oggi si sente più italiano che mai; c’è l’Italia da deridere e criticare per i tanti servizi che non funzionano, e l’Italia da riscoprire, come patria della bellezza artistica, architettonica, letteraria. C’è un’Italia che fa da modello all’Europa su come agire; e un’Italia che guarda male e con disprezzo la stessa Europa che prima aveva chiuso le porte e girato la testa dall’altra parte.
C’è chi continua a ripetere che siamo in dittatura, che ci hanno tolto la libertà, perché la libertà è partecipazione, condivisione e dialogo. C’è chi dice che siamo comunque connessi. Ma siamo veramente connessi tra di noi? O forse solo in collegamento? Dicono che daremo più valore a un abbraccio o a un bacio; ma non abbiamo forse imparato anche a farne a meno, a rimanere isolati e ad aumentare le distanze?
C’è chi crede che tutto questo sia un disegno, che sia stato tutto pianificato. Con lo stato di emergenza si vuol vedere il tentativo della riduzione della libertà individuale e l’abbassamento delle regole della convivenza civile. C’è invece chi ci ricorda che i nostri nonni sono stati chiamati per andare in guerra, noi per rimanere a casa e godere dei nostri comfort e dei nostri cari.
Ma possiamo tutti veramente godere di qualcosa? Siamo tutti così benestanti da permetterci cibo, bollette, affitto? In Italia all’ordine del giorno vi era il malcontento per l’assenza di lavoro, per i giovani disoccupati, per i precari: che fine hanno fatto? Lo Stato riuscirà a farsi carico di tutto questo e ammortizzare i danni all’economia e al futuro dei cittadini?
Ci sono medici e infermieri che attraverso video e messaggi vocali ci hanno spiegato la grave situazione. Poi ce ne sono stati altri che ci hanno ricordato che i virus ci sono sempre, che non hanno un corpo (al di fuori del nostro corpo, in natura, il virus non è resistente) e sono così microscopici che le mascherine non servono a niente; prendono vita quando agiscono su un corpo, su cui possono agire in più forme, in maniera asintomatica oppure provocando danni respiratori che richiedono l’utilizzo di una terapia e strumentazione sanitarie.
Ci sono i medici che ci ricordano che per avere le difese immunitarie alte, e in questo momento sono fondamentali, è importante mantenere il buon umore, fare esercizio fisico, mangiare bene (quello che dovremmo fare in fin dei conti sempre). E via che si fanno sessioni di allenamento in casa o in giardino (per quei fortunati e più che mai invidiati che ce l’hanno), meditazioni, yoga, pilates.
C’è chi ne ha approfittato per promuovere la cultura, attraverso consigli di lettura, apertura dei musei e dei cataloghi online, chi fa lezioni in diretta, chi legge e chi scrive, nella speranza che chi di dovere si ricorderà una volta ristabilita la “normalità” che è importante leggere, studiare e che forse con la cultura si può anche mangiare. C’è chi ci vede chiaro e resta lucido; c’è chi si sente torbido e non capisce bene ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è giusto e ciò che invece non lo è, oppure semplicemente cosa prova.
C’è chi trova tante buone ragioni per vedere il bicchiere mezzo pieno e chi invece lo vedrà sempre e comunque mezzo vuoto. C’è chi si lamenta; c’è chi pensa che gli italiani siano un popolo bravo solo a lamentarsi e a fare la morale. C’è chi se la prende con chi esce di casa e chiama i carabinieri o la municipale. Ma come scrive Marco Bersani, in un articolo su italia.attac.org, “una delle strategie più efficaci messe in campo dai poteri forti durante ogni emergenza consiste nella colpevolizzazione delle persone, per ottenere dalle stesse l’interiorizzazione della narrazione dominante su ciò che accade, al fine di evitare qualsiasi ribellione verso l’ordine costituito”.
C’è chi non ama gli spioni, c’è chi si fa gli affari suoi e si chiude in se stesso.
C’è chi ha bisogno di silenzio; c’è chi fa rumore. C’è chi ascolta e chi parla sempre.
C’è chi considera quello che sta accadendo come una necessità, una cosa inevitabile; c’è chi non se ne fa una ragione. C’è chi la affronta come una prova, una sfida da superare; c’è chi si arrende e segue gli ordini imposti dall’alto. C’è chi ha fede e chi no.
C’è chi è tragico e catastrofista, e chi è sempre speranzoso e ottimista.
C’è chi è convinto che tutto questo serva a coltivare lentezza e pazienza; c’è chi fermo non sa stare e non ci vuole stare.
C’è chi fa buona informazione e aiuta i cittadini a capire i motivi della pandemia e le misure di sicurezza; c’è chi non perde occasione per fare cronaca nera e aumentare il disagio e la paura. C’è chi non sa più a chi credere e chi ascoltare. C’è chi ha la televisione sempre accesa e sintonizzata sullo stesso canale, dalla mattina alla sera. C’è chi invece sente più campane.
C’è chi non vuole pensare e cerca di distrarsi; c’è chi non riesce a non pensare e a non analizzare il periodo che sta vivendo. Perché è arrivato? Forse perché abbiamo chiesto troppo al pianeta, distruggendo ecosistemi e provocando tutto ciò?
E dove ci porterà? Che impatto avrà sul sistema, sul pianeta e sui noi stessi?
Ci servirà da lezione o tutto riprenderà uguale a prima?
Le cose non sono mai semplici da capire e analizzare fino in fondo; perché per ogni problema ci sono più piani e più aspetti su cui riflettere e spesso questa tendenza agli slogan e agli hashtag finisce per semplificare tutto anche quando di semplice, oggi più che mai, non c’è nulla.
L’aspetto fondamentale che ci è stato sottratto dall’emergenza: la possibilità di creare spazi e tempi in cui condividere riflessioni, pensieri, idee, fantasie, in cui dialogare attraverso una relazione interpersonale. Internet ci permette di mantenere una relazione ma non può sopperire al contatto umano.
È possibile creare una comunità senza un tempo e uno spazio condivisi?
E che tempo è, in fondo, quello che stiamo vivendo?
Walter Omar Kohan, filosofo sudamericano, parla di tre tipi di tempo: chronos, il tempo dell’orologio, che non è mai presente, ma solo passato e futuro – del resto c’è presente nell’orologio? –; kairos, il tempo dell’opportunità – quando è opportuno fare una cosa –; aiòn, il tempo dell’infanzia e della filosofia, il tempo che il bambino sente nel gioco, in cui perde la cognizione dello scorrere dei minuti o delle ore perché totalmente assorto.
Spererei in un aiòn continuo, in cui bambini e adulti riescano a perdersi nel tempo a giocare e immaginare, ma non so se sia possibile. Auguro, allora, a tutti di trovare in questo tempo, che sembra essere sempre uguale e a tratti infinito, comunque l’opportunità per fare ciò che va fatto o che si avrebbe voluto sempre fare, ma che per vari motivi non si riusciva a concretizzare.
Anni fa Ivano Fossati cantava: “dicono che c’è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare, io dico che c’era un tempo sognato che bisognava sognare”. Io a mia volta dico che bisogna continuare a sognare, attraverso le storie che leggiamo o ascoltiamo, attraverso il coltivare le proprie passioni e il progetto di un futuro migliore. Finché si sogna c’è speranza; e finché c’è speranza, c’è vita. E come scriveva Tiziano Terzani (nel libro sopra citato), “quello di cui oggi abbiamo bisogno è la fantasia per ripensare la nostra vita, per uscire dagli schemi, per non ripetere ciò che sappiamo essere sbagliato”.
Ippolita Bonci Del Bene (Fano, 1989) è una giovane filosofa che si occupa di pratiche filosofiche rivolte ai bambini. Dopo la maturità classica, ha studiato filosofia tra Bologna, Valencia e Torino. Lavora nelle scuole dell’infanzia e in quelle primarie come esperta esterna con progetti di filosofia con i bambini. Collabora con festival ed eventi pubblici per la progettazione e la conduzione di laboratori filosofici e creativi per bambini. È appassionata di libri, arte e fotografia. Ha scritto la guida culturale e turistica “Fano – Passaggi in città. 100 storie e luoghi da scoprire” (Passaggi Cultura, 2019).