A Passaggi Festival, giovedì 22 giugno, l’antropologa e formatrice Cristina Cassese ha presentato il suo libro Il bello che piace. Antropologia del corpo in 10 oggetti (Enrico Damiani Editore). L’incontro si è svolto a Fano presso il Bon Bon Art Cafè dove l’autrice ha conversato con la blogger letteraria Chiara Grottoli.
Evoluzione della bellezza, dicotomia kantiano-cosmetica
Tema principale del libro di Cristina Cassese è la bellezza: essa nel tempo ha cambiato i suoi canoni, passando dall’essere armonia nella Grecia classica, fino al cristianesimo rassomigliando il divino. Il tema è stato trattato grazie all’analisi di 10 oggetti dei quali vengono ripercorse le varie storie.
L’ispirazione dell’autrice è nata dopo una visita presso un museo di arte contemporanea con una sua classe di alunni che studiavano parrucchieria ed estetica, nella quale lei era insegnante di lettere. In questo museo una guida, dopo aver incontrato i ragazzi e aver dialogato con essi si era confusa circa l’idea di estetica vista come filosofia e come estetica-cosmetica. Da questa incomprensione tra l’ideale di estetica kantiana, ossia quella di riflessione sul bello, e l’idea di estetica-cosmetica, un affare di poca importanza, di effimero, è nato il libro.
Gli oggetti di Cristina e la tendenza all’auto-oggettivazione
Il corpo è lo strumento con cui siamo in grado di comunicare con gli altri, è il confine di ogni essere umano. Uno dei dieci oggetti di cui l’autrice parla nel libro è proprio lo specchio, strumento attraverso il quale le persone scoprono il proprio corpo. Attorno allo specchio c’è un mondo magico nel quale le persone si perdono in un riflesso, il quale può essere visto in modo ambiguo e ambivalente, ma allo stesso tempo può riprodurre la realtà.
Il modo in cui si utilizza questo strumento crea spesso ossessioni, auto-oggettivazioni: ci si sofferma a pensare a come gli altri ci vedono e ciò condiziona molto le azioni stesse della persona.
Per controbilanciare la tendenza all’auto-oggettivazione, fenomeno che si verifica principalmente su donne e giovani uomini, si tende a praticare attività fisiche che impegnano il corpo affinché questo si focalizzi più sulle sensazioni che sull’estetica.
Partendo dal presupposto che non esiste persona al mondo che sia in grado di lasciare il proprio corpo così com’è, poiché, a differenza degli animali dotati di corpi funzionalmente specializzati, l’uomo necessita di migliorarlo, tutti compiamo scelte estetiche. Il solo tagliarsi le unghie o lavarsi la faccia rientrano tra queste.
Quel qualcosa che non ci è dato in partenza dalla natura ma che spetta a noi realizzare è la cultura. Da questa riflessione Cristina Cassese ha iniziato a parlare di un altro oggetto: la spazzola. Quell’oggetto che ogni giorno ci fornisce la possibilità di cambiare il nostro aspetto al fine di apparire diversi.
Il solo tagliarsi i capelli ha un forte significato: se infatti è la persona stessa a compiere questo gesto può essere visto come segno di protesta, tuttavia se è un gesto compiuto da altri può essere visto come una violenza.
I capelli sono la parte più alta, più visibile del corpo, e come le unghie o i peli hanno la capacità, se recise, di ricrescere.
Il lato oscuro della cultura
Accanto al lato pratico della cultura, la quale è essenziale per la nostra sopravvivenza, si affianca un lato oscuro ricco di stereotipi e luoghi comuni. Ne è un esempio associare al colore biondo dei capelli di una donna, colore che da sempre simboleggia la bellezza, l’idea che quest’ultima sia “sciocca”, “svampita”.
La conferma di questa tesi è stata data da un esperimento sociale realizzato a metà degli anni ‘90, nel quale un datore di lavoro è stata sottoposto alla visione di curricula di donne dalle stesse capacità ma con immagini diverse e ad essere scelte sono state proprio quelle donne dai capelli mori e struccate.
Anche il trucco che da sempre veniva utilizzato per motivi di religione o per pratiche di medicina tradizionale (cajal) assume un significato negativo. Essendo il corpo, per la concezione cristiana, un dono di Dio, quest’ultimo non può essere modificato. Ma la società in cui viviamo ha proposto ideali di bellezza irraggiungibili per rendere il trucco un elemento essenziale nella vita di tutti i giorni. Per l’economia di mercato infatti non esiste consumatore migliore di un consumatore insicuro.
La condanna della bellezza e bellezza “di classe”
Il tema della bellezza per l’uomo non è mai stato così centrale, i corpi degli uomini sono infatti quelli che devono produrre, sono la forza lavoro. Al contrario il tema della bellezza per le donne nel corso del tempo ha assunto un valore pratico di vitale importanza: il corpo della donna ha il compito non tanto di produrre, quanto di riprodurre. Era perciò importante essere belle per poter ottenere matrimoni vantaggiosi per il sostentamento della propria persona.
Fino all’arrivo dell’illuminismo la moda non era tanto una questione di genere (maschio-femmina), quanto di classe. Gli uomini indossavano vestiti dai colori sgargianti, merletti, accessori, pizzi, al pari delle donne. Con l’illuminismo però arriva la grande rinuncia. Gli uomini iniziano ad indossare i classici tre pezzi accompagnati da un unico accessorio: l’orologio. Diventa per gli uomini impossibile nutrire interessi verso il mondo della moda: nasce lo stigma che il gusto per il vestirsi è condizionato dall’orientamento sessuale.
D’altro canto prende piede il travestitismo per le donne, le quali iniziano a “rubare” dei capi dagli armadi degli uomini e a tagliarsi i propri capelli.
Praticità e seduzione del tacco
Altra parola è “tacchi“. Questo oggetto era nato nel medio-oriente come scarpa maschile utilizzata per cavalcare e successivamente si era diffusa in occidente diventando un capo anche femminile. Con l’illuminismo si creava una distinzione tra quello che era il tacco maschile, largo e basso, e quello che era il tacco femminile, stretto e lungo. Due direzioni diverse: una incentrata sulla comodità e la praticità, l’altra caratterizzata da scomodità e seduzione.
Il tacco per le donne è diventato un elemento distintivo. E’ spesso utilizzato da donne di successo che, per distinguersi dalle segretarie e mettere in rilievo la loro superiorità, si vestono con capi maschili. Ecco che questa calzatura diventa il simbolo della femminilità.
Il tatuaggio un segno indelebile e doloroso
Il tatuaggio è uno dei 10 oggetti di cui l’autrice parla nel libro, seppur esso non sia puramente un oggetto.
A differenza del trucco, del taglio di capelli, del modo di vestirsi, tutte pratiche estetiche reversibili, quello dei tatuaggi è un intervento permanente e doloroso: si supera il confine della pelle.
E’ passata dall’ essere una pratica di messa immagine (soltanto i pirati o le prostitute ne possedevano), a pratica di messa a norma. Oggi l’arte di tatuare il corpo è una pratica volontaria influenzata, tuttavia, dalla società. Siamo esseri umani etnocentrici: ognuno è immerso nella propria cultura e, per questo, si considerano naturali cose che spesso non lo sono affatto. L’antropologia serve a farci riflettere, è un sapere di frontiera, è fatta da persone curiose che vogliono conoscere la varietà degli esseri umani. Ed è proprio questa la vera bellezza!