L’ultima volta che ci siamo incontrati abbiamo parlato dei vivi e dei morti che hanno inseguito le nostre vite. Sul tavolo erano sparse alcune sue foto. Una di Giovanni Falcone, con la pistola in mano mentre s’infilava nel bunker del Palazzo di Giustizia.
Un’altra di Pio La Torre, la gamba destra che pendeva fuori dalla berlina scura, la folla, i cerchi di gesso intorno ai bossoli vomitati sull’asfalto da un fucile mitragliatore. Ce n’era una anche di Francesco Accordino, un poliziotto dell’«Omicidi» che per noi era più di un amico. Uno dei sopravvissuti di Palermo.
Poi Letizia ne ha tirata fuori un’altra di foto, da una scatola di scarpe. Uno scatto del 1972, un viso nascosto da mani nodose, Pier Paolo Pasolini al Circolo Turati di Milano.
«L’ho conosciuto quel giorno ma ce l’avevo già dentro e non me lo sono fatto scappare più».
Mi ha anche confessato che ormai prova sempre un certo fastidio quando qualcunodice che è una grande fotografa: «Perché la fotografia è solo una parte di me, solo una parte».
La «Battaglia» l’ho vista per la prima volta quando, appena ragazzino, sono entrato come cronista di nera negli stanzoni del giornale «L’Ora». (…)
Letizia era sempre la prima ad arrivare, si faceva largo fra qualche carabiniere, s’inginocchiava davanti al cadavere e poi scattava. Un quarto d’ora dopo era nel suo laboratorio di via Meccio a stampare, prima di mezzogiorno le fotografie ancora bagnate di acido erano già rovesciate sulla scrivania del caporedattore.
Ogni mattina c’era un morto. A volte, i morti erano due o tre o anche quattro. La guerra di mafia. (…) Ogni delitto sembrava uguale a quello prima. Pistole a tamburo, una motocicletta bruciata, sicari che sparivano. Poi l’odore dolciastro del sangue, le mosche che ronzavano intorno, qualche padre che davanti al morto issava il figlio sulle spalle e gli sussurrava all’orecchio «talìa talìa», guarda guarda. Gli scatti di Letizia, la corsa in redazione e la paura, la paura che non passava mai.
Un’altra scatola, un album vuoto. Quasi venticinque anni fa, il 23 maggio del 1992. «Quel sabato ho detto basta, basta con i morti di Palermo: a Capaci non sono più riuscita a fotografare la morte». L’autostrada sventrata, il cratere. E nemmeno due mesi dopo i fuochi e i fumi dell’autobomba appena saltata in aria in via D’Amelio. Letizia non ce l’ha fatta nel 1992.
Lei dentro un gorgo e gli altri che la consacrano come una delle più grandi fotografe del mondo. Più di una volta ha provato a mettere distanza fra lei e la sua città, Palermo che è come la sua pelle. E’ sempre tornata. Da un paio di anni mi fa sempre la stessa domanda e io non so risponderle. Chiede: «Dimmi come posso raccontare la mafia di oggi, non riesco a vederla, non so più come fotografarla». Non ci sono più cadaveri per le strade di Palermo. E non ci sono più boss dietro le sbarre dell’aula bunker, come al tempo del maxi processo di Falcone. E anche Letizia si dispera davanti a una mafia che si nasconde.
Attilio Bolzoni, La Repubblica
(su gentile concessione)