Shakespeare

Shakespeare, oggi è nato, oggi è scomparso. Il Regno Unito, in questi giorni, Covid-19 a parte, ha due buoni motivi per festeggiare due sue grandi intramontabili icone: qualche giorno fa, il 21 di aprile, la regina Elisabetta, ha spento novantaquattro candeline e, ad appena due giorni di distanza, oggi, ricorre l’anniversario dei 404 anni dalla morte di William Shakespeare, un anniversario che, tra l’altro, coincide con la ricorrenza dei 456 anni dalla nascita del Bardo che un 23 aprile venne alla luce e sempre un 23 aprile morì, rispettivamente nel 1564 e nel 1616.

In che senso la nostra attualità è shakespeariana e perché Shakespeare è un poeta per tutti i gusti

Scrivere che William Shakespeare è un classico perché è eternamente moderno o che è un autore che né smarrisce la propria contemporaneità né esaurisce la propria urgenza comunicativa equivale a scrivere delle cose ugualmente vere e banali.

Lo hanno detto tutti, e senza timore di sbagliare, che il grande protagonista del teatro d’età elisabettiana e giacomiana è un fenomeno d’inesauribilità: la sua fortuna non ha conosciuto periodi di secca e basti pensare che un Macbeth dalla produzione hollywoodiana è uscito tra 2015 e 2016 e che, recentemente, abbiamo visto anche un Amleto con il volto di Benedict Cumberbatch. In questo momento Joel Coen, uno dei due fratelli Coen, sta lavorando a un altro adattamento cinematografico del Macbeth in cui l’autore, per sua stessa ammissione, proverà a trasporre non senza fatica tutta la tensione già racchiusa nell’ineguagliabile testo shakespeariano. E questi sono solo alcuni esempi di come l’opera del Bardo continui a parlarci e ad attraversare epoche, generi e linguaggi artistici e mediatici differenti.

Di Shakespeare si può dire di tutto, con margini d’errore davvero minimi: che è un autore che indaga l’incertezza identitaria, anticipando le scissioni interne e l’insofferenza novecentesche per le briglie definitorie del gender e dell’appartenenza; che aveva un punto di vista maschile e, allo stesso tempo, teneva in gran considerazione le donne perché certamente molte delle sue eroine sono di intelletto brillante, migliori delle loro controparti maschili  o comunque spesso loro sodali; di Shakespeare si può ricordare l’impegno nella rappresentazione delle passioni dirompenti, la corruzione di cui è foriero il linguaggio, le parole che si dicono non per costruire la realtà ma per distruggerla, per insinuare il dubbio, per sostituire al vero la sua mitologia, la sua metafisica deteriore: la parola sofistica è il peggiore dei pericoli che tutto avvelena, anche i rapporti d’amore più felici, come quello tra Desdemona e Otello.

Di Shakespeare potremmo risaltare lo slancio speculativo, l’acume introspettivo, la sintonia naturale con le posture psicologiche più varie oppure l’immediatezza, l’empatia con il nocciolo capriccioso di ogni uomo che subisce i suoi umori corporei prima dei suoi tormenti spirituali. Di Shakespeare si potrebbe suggerire che, dopo aver conosciuto varie fasi creative, approdò ad una poetica della meraviglia che cerca il rinnovamento attraverso simbologie di rinascita e di salvazione, attraverso costruzioni figurative in cui un ordine naturale e positivo nei rapporti tra i sessi e le generazioni viene ripristinato e le storture della vita raddrizzate. La sua produzione più allegorica e spirituale, quella dei drammi romanzeschi di fine carriera, se solo volessimo, ci conforterebbe molto oggi che viviamo l’incubo dell’incertezza nei confronti di un futuro che, più di prima, fatichiamo a immaginare.

La forza di Shakespeare risiede, così, nel suo non essere un’unica forza, nel suo non attingere a un’unica fonte: Shakespeare inventò pochissimo, quasi nulla, a livello di trama, sempre s’indebitò col mito greco-latino, colla storiografia plutarchea, coi romanzi bizantini, colla novellistica italiana.

Non era un genio creativo nel senso in cui oggi lo intenderemmo: il suo teatro era un teatro di riciclo. Ed era un teatro fatto di quasi niente, quasi solo di parole. Ma se le parole — come sosteneva Gorgia — sono i corpi più piccoli in grado di fare le cose più divine, allora il suo teatro ridotto all’osso riconosceva nella povertà dei mezzi e nell’assenza di distrazioni il più grande dei vantaggi.

Shakespeare lo sapeva già

E se il Bardo è da sempre tanto celebrato è per il fatto che è un autore ecumenico, né raffinato né popolare perché insieme raffinato e popolare. Sapeva intercettare il gusto dei suoi contemporanei adattandovi, ma adattandovisi senza nulla cedere, senza nulla sacrificare della qualità di ciò che scriveva e che gli interessava capire. E non è vero, come dicono, che Shakespeare è attuale, è solo la nostra attualità ad essere shakespeariana, perché oggi più che mai sentiamo l’urgenza di deporre ogni possibile illusione sul mondo, perché questo mondo ci appare al di là del bello e del brutto, del nobile e del volgare, del buono e del cattivo, sempre così come capita, arbitrario e incomprensibile.

Shakespeare lo sapeva già e, a leggerlo bene, non ci piace solo perché ci ha lasciato un fondo infinito di umanissimi guai e personaggi, ma anche perché ci ha poeticamente avvisati che la vita è spostata di molto più in là rispetto a qualunque ipotesi su di essa, a qualunque nostra pretesa di crederla sensata. Il Covid ce lo ha insegnato in queste settimane, ma Shakespeare lo sapeva già quattro secoli fa.

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