Storia sociale della bicicletta: questo mezzo di mobilità ha compiuto 150 anni ma non li dimostra affatto: ha attraversato il Novecento e, tra alti e bassi, è stata il mezzo con cui noi abbiamo attraversato il nostro secolo e con cui siamo entrati nella modernità. Nel libro Storia Sociale della bicicletta edito da Il Mulino, Stefano Pivato, docente di storia contemporanea all’Università Carlo Bo di Urbino, di cui è stato anche rettore, e all’Università Bourgogne Franche-Comté, ci racconta la storia di questo incredibile oggetto che lui stesso definisce “uno dei più collettivi della comunità”
Storia sociale della bicicletta, in sella tra Francia ed Italia
Indiscutibile simbolo di libertà, la bicicletta fece la sua comparsa alla fine dell’Ottocento inaugurando, in un certo senso, l’epoca della modernità: chiunque da quel momento fu in grado di andare quattro volte più veloce riponendo questa nuova abilità nella sola forza delle proprie gambe. Culla della bicicletta è stata la Francia ma, secondo Pivato, l’Italia costituisce il Paese che ne ha perfezionato l’uso: lo storico, infatti, fa continui parallelismi tra i due paesi nella sua opera.
Storia sociale della bicicletta, chi pedala e chi no
Nei primi del Novecento la classe operaia fu quella che maggiormente si servì della bici per andare a lavoro. Moltissime donne, inoltre, iniziarono ad emanciparsi da opprimenti rapporti di potere grazie ai nascenti movimenti femministi e videro nella bicicletta il simbolo della loro indipendenza e della loro libertà di muoversi.
Questo, però, avvenne principalmente in Inghilterra e negli Stati Uniti, in Italia la presenza della Chiesa tendeva ad allontanare le donne dall’utilizzo della bicicletta poiché considerato “sconveniente”. La bici, infatti non piaceva a tutti: il Vescovo di Mantova Giuseppe Sarto, futuro Papa Pio X, in un messaggio alla sua diocesi ordinò che gli ecclesiastici della sua diocesi si astenessero dall’utilizzare una tale “minaccia”. Alzare la tonaca per montare sul sellino di una bicicletta sembrava essere un a cosa che poco si addiceva ai preti.
Nulla, però, fu in grado di fermare l’imposizione della bicicletta come principale mezzo di spostamento durante le Guerre Mondiali. Nel biennio ’43- ’45 la bicicletta divenne, effettivamente, l’unico mezzo di trasporto: le reti ferroviarie, infatti, erano spesso inagibili e pericolose per i bombardamenti continui. Contemporaneamente la bici divenne uno strumento fondamentale della Resistenza, soprattutto per le azioni partigiane nei centri urbani, tanto che dopo l’8 settembre del 1943 i ciclisti per circolare devono essere muniti di un permesso.
Il declino
Il boom economico introdusse nella quotidianità degli italiani i motori: la bicicletta iniziò ad essere soppiantata da macchine e motorini è diventò, nell’immaginario degli Italiani, quella di Fausto Coppi e Gino Bartali che si inseguivano per tutta la Penisola e nelle cronache sportive. In alternativa pensando alla bicicletta si pensava alla mitica Graziella, facile da piegare e caricare nel portabagagli della macchina prima di andare in villeggiatura. Solo durante la crisi petrolifera del ’73 gli Italiani rispolvereranno la bicicletta.
Il ritorno
Nella nostra epoca l’attenzione alle tematiche ambientaliste sta finalmente riportando in auge la bicicletta. In paesi come la Germania, l’Olanda e l’Inghilterra, le città sono protagoniste della nascita di spazi ad hoc per le bici che sono sempre più al centro della viabilità quotidiana. “In Italia invece”, sostiene Pivato, “le bici hanno corsie ottenute dalla redistribuzione di quelle delle auto”, un modello diverso che ancora fatica ad attecchire soprattutto in molte realtà urbane.
Una cosa è comunque certa: che “attraverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia”, è da questa citazione di Gianni Brera che Stefano Pivato inizia il racconto di questa storia incredibile che alla fine dei conti è la storia di tutti noi.
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